L’austerità, gli interessi nazionali e la rimozione dello Stato











di Massimo Pivetti

1. All’interno del capitalismo avanzato, e segnatamente in Europa, fino a una trentina di anni fa era ancora diffusa la consapevolezza che né gli interessi di una nazione né il suo progresso sociale possono essere perseguiti se al potere del denaro non può essere contrapposto quello dello Stato. Questa consapevolezza si è progressivamente persa nel corso dell’ultimo trentennio, derivandone un deterioramento netto delle condizioni di vita per la maggioranza della popolazione.
Diciassette Stati europei hanno rinunciato alla loro sovranità monetaria, ossia al principale tra i poteri economici pubblici. Nonostante la presenza di disoccupazione di massa all’interno di molti di essi e di attrezzature produttive ampiamente inutilizzate, la produzione di beni e servizi essenziali al benessere collettivo non viene accresciuta, viene anzi contratta, perché “non ci sono i soldi”. Gli Stati dell’eurozona non dispongono più di una banca centrale che possa creare moneta e svolgere nei loro confronti, non solo in quelli delle banche, il fondamentale ruolo di prestatore di ultima istanza. La conseguenza è che numerosi tra di essi non riescono più a finanziarsi se non a tassi di interesse tali da rendere praticamente inevitabile il continuo aumento del loro debito in rapporto al prodotto interno lordo (PIL), a meno di drastici tagli ai salari dei dipendenti pubblici, alle pensioni, all’istruzione, alla ricerca e alla cultura, ai servizi pubblici fondamentali.
Il regime di completa libertà per i movimenti internazionali di capitali che ha accompagnato la rinuncia alla sovranità monetaria ha anche determinato uno spostamento del prelievo fiscale dai redditi da capitale e impresa ai redditi da lavoro e all’imposizione indiretta. Con la liberalizzazione finanziaria, infatti, la necessità di trattenere e attirare i capitali ha reso i sistemi tributari più generosi nei confronti del risparmio e della ricchezza privata, diminuendone sensibilmente la progressività generale. Così, a fronte del ridimensionamento della spesa sociale, anche l’incidenza di imposte e contributi sui redditi medio-bassi è andata crescendo. Liberalizzazione finanziaria e rinuncia alla sovranità monetaria hanno dunque finito per portare alla perdita anche di buona parte della sovranità fiscale, cioè della libertà di ciascun paese di decidere livello e composizione della sua spesa pubblica, nonché le forme della tassazione.

2. Un esempio significativo della situazione che si è in conseguenza determinata in Europa è fornito dal caso italiano. Nel presentare in Parlamento lo scorso dicembre la manovra detta “Salva Italia” – una manovra fortemente regressiva perché in larghissima misura costituita da aggravi per lavoratori dipendenti e pensionati – il nuovo capo del governo dichiarò che l’adozione delle misure in essa previste era condizione necessaria per evitare l’imminente “fallimento” del paese; che senza quelle misure molto presto non si sarebbero più potute pagare le pensioni, né continuare a far circolare tram e autobus perché oltre i successivi due mesi neppure i salari e gli stipendi dei pubblici dipendenti avrebbero potuto continuare ad essere corrisposti. Per far approvare insomma senza indugi e discussioni una manovra estremamente antipopolare, non si esitò da parte del governo a diffondere allarme e paura tra la popolazione. Quelle dichiarazioni si sarebbero collocate al limite della criminalità, se non fosse stato per l’assurda situazione che si è oggettivamente venuta a creare per un buon numero di paesi europei, Italia compresa, con la rinuncia alla sovranità monetaria e a buona parte di quella fiscale - rinunce entrambe non compensate da poteri democratici d’intervento pubblico sovranazionale.
Come è noto, a misure simili a quelle del nostro “Salva Italia” si sta facendo ricorso anche in buona parte degli altri paesi europei. Si può dire sia attualmente in atto in Europa una sorta di austerità fiscale concertata, per la quale al disastro della finanza privata e alla recessione si sta rispondendo con politiche simultanee di austerità pubblica, di cui si è arrivati a propugnare addirittura la costituzionalizzazione. (Merita a questo riguardo osservare come una buona misura della generale subalternità alla cultura economica dominante sia fornita dalle timidissime reazioni, più spesso dal silenzio, dei costituzionalisti italiani nei mesi che hanno preceduto l’approvazione da parte del Senato - a larghissima maggioranza, tale da escludere il ricorso al referendum confermativo - del nuovo articolo 81 della Costituzione che impone il pareggio del bilancio pubblico.) La tesi, insistentemente ribadita, secondo cui rigore e austerità costituirebbero il fondamento di una strategia di ritorno alla crescita, in quanto il conseguente “risanamento” delle finanze pubbliche ripristinerebbe lo “stato di fiducia” dei mercati, non poggia su alcuna solida base analitica. Di fatto, per chi ci crede, è un mero atto di fede. L’abbassamento dei tassi di interesse che si è verificato nei primi mesi dell’anno in corso è stato un fatto positivo; ma la riduzione del loro scarto rispetto ai tassi sui titoli di Stato tedeschi di pari durata ha avuto ben poco a che vedere con le misure del “Salva Italia”, dovendo piuttosto essere attribuita all’indiretta (e per le banche assai lucrosa) politica di sostegno dei corsi dei titoli pubblici intrapresa dalla BCE: prestiti triennali all’1% concessi alle banche per un totale di circa 1000 miliardi di euro, nella ragionevole aspettativa che rendimenti di 5-6 volte maggiori le avrebbero spinte ad impiegarne buona parte nell’acquisto di titoli di Stato europei. Comunque, il governatore della BCE è convinto che “dando tempo al tempo, questo denaro finirà per affluire all’economia”, indipendentemente dalle politiche di rigore e di “risanamento” delle finanze pubbliche che anche lui ritiene indispensabili.
Nella realtà le cose stanno esattamente all’opposto. Le politiche del rigore e dell’austerità continueranno ad esercitare pesanti effetti recessivi, indipendentemente dalla liquidità che la BCE sia intenzionata a continuare a mettere a disposizione delle banche. Per quanto generosa la BCE decida di continuare ad essere nei loro confronti, le misure del “Salva Italia” e le analoghe misure adottate dalla maggior parte dei governi europei sono semplicemente destinate ad aggravare la recessione. Esse faranno aumentare ancora di più la disoccupazione e la precarietà, indeboliranno ulteriormente la forza contrattuale del lavoro dipendente e le disuguaglianze di reddito si accentueranno; ne risulteranno ulteriori contrazioni dei consumi, della domanda aggregata e del prodotto. Anche l’obiettivo del “risanamento” delle finanze pubbliche - l’abbattimento del rapporto debito pubblico/PIL - è destinato in tal modo ad essere mancato, perché quanto si fa di giorno con il rigore e l’austerità tende a disfarsi di notte attraverso il loro impatto negativo sul prodotto e l’occupazione. Gli stessi mercati finanziari sembrano ormai rendersene conto e sembrano apprezzare sempre meno gli altari sacrificali che dappertutto e simultaneamente si continuano ad erigere in loro onore.

3. Ma come si è arrivati a questa situazione assurda? Non c’erano e non ci sono strade alternative di fronte alla crisi e alla recessione? E se ci sono, perché non vengono imboccate? Una risposta soddisfacente alla prima di queste tre domande richiederebbe da sola un intero volume. Bisognerebbe analizzare l’intera esperienza del capitalismo avanzato nel corso dell’ultimo trentennio, a partire dall’abbandono dell’obiettivo della piena occupazione a favore della lotta all’inflazione alla fine degli anni Settanta - inizio anni Ottanta. Andrebbero poi considerati, per quanto riguarda l’Europa, i cambiamenti subiti in corso d’opera dal progetto di unificazione economica e monetaria e i cambiamenti istituzionali connessi con il Trattato di Maastricht, l’istituzione della moneta unica e i successivi accordi e trattati; l’influenza su tutto questo della restaurazione teorica nel frattempo intervenuta in campo economico, e, infine, ma non per ultimo, andrebbe discusso lo stato confusionale della Sinistra europea di fronte alla “modernità” neoliberista. Un’analisi decisamente troppo lunga e complessa per essere tentata in questa sede. Concentriamoci allora sulla seconda e sulla terza domanda.
Con lo scoppio della crisi e l’inizio della recessione ci si sarebbe aspettato che venisse subito avviato in Europa un coordinamento di politiche economiche espansive, con subordinazione della politica monetaria all’orientamento espansivo delle politiche di bilancio. Si è invece proseguito sulla strada dell’imposizione di ingenti avanzi primari (eccedenze delle entrate sulle spese pubbliche, al netto di quella per il pagamento degli interessi sul debito pubblico) e dell’abbattimento da parte di ciascun paese del suo rapporti debito pubblico/PIL. L’abbattimento di questo rapporto è diventato una vera e propria ossessione. In nessun conto viene tenuto il fatto che né la teoria economica né l’esperienza concreta consentono di stabilire un limite oltre il quale tale rapporto diventerebbe insostenibile: si tratterebbe del 220% del Giappone, del 120% dell’Italia, o del 70% della Spagna (che come è noto si trova in condizioni economico-finanziarie decisamente peggiori di quelle del Giappone)? Allo stesso modo, in ben poco conto è tenuto il fatto che il vero nodo della presenza di un debito pubblico interno è costituito dai suoi effetti redistributivi – dai trasferimenti di reddito da coloro che pagano le imposte per onorarne il servizio a coloro, appartenenti alla stessa generazione, che incassano gli interessi pagati dallo Stato. Questa redistribuzione del reddito disponibile ha effetti negativi sulla domanda aggregata, i livelli di attività e la coesione sociale, ed è proprio per contenere tali effetti che dovrebbe essere considerato importante riuscire a fare in modo che, anche in una situazione in cui il debito pubblico sia (o sia tornato ad essere) prevalentemente interno, il suo volume in rapporto al PIL non continui a crescere nel tempo.
Tenuto allora conto del fatto che oggi politiche di abbattimento dei debiti pubblici non possono che aggravare la recessione, è alla stabilizzazione dei rapporti debito/PIL, non al loro abbattimento, che avrebbe senso puntare. Questa stabilizzazione naturalmente richiede che il tasso di crescita del debito si mantenga uguale al tasso di crescita del PIL. Ogni economista sa bene che ciò è compatibile con dei disavanzi primari – tanto maggiori, in rapporto al PIL di ciascun paese, quanto maggiore il livello del suo rapporto debito pubblico/PIL – purché, attraverso la politica monetaria, il tasso di interesse venga mantenuto inferiore al tasso di crescita del PIL. In linea di principio, dunque, nell’eurozona un coordinamento in senso espansivo delle politiche economiche non sarebbe difficile da realizzare. Esso presupporrebbe una vera politica monetaria unica, ossia il perseguimento da parte della BCE di una politica di tassi di interesse uniformemente bassi per tutti i paesi membri, accompagnata da politiche di bilancio espansive da parte di ciascuno di essi, ossia da disavanzi primari finalizzati al sostegno dei rispettivi tassi di crescita. In pratica la BCE, agendo da prestatore di ultima istanza anche nei confronti degli Stati, procederebbe all’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi membri dell’eurozona nella misura necessaria a mantenere per ciascuno di essi il tasso di interesse al livello di quello tedesco, in cambio del loro impegno a mantenere stabili i rispettivi rapporti debito pubblico/PIL.
Naturalmente, con questa combinazione di politiche di bilancio espansive e politica monetaria di sostegno diretto del corso dei titoli pubblici da parte della BCE, ciascun paese potrebbe contare sui benefici addizionali prodotti sulla propria economia dall’orientamento espansivo impresso alla politica economica anche dagli altri. Si metterebbe insomma in moto un circolo virtuoso di espansione produttiva, al posto di quello vizioso della contrazione innescato dal ricorso simultaneo a politiche di austerità.

4. Cerchiamo di capire perché niente che si avvicini a quanto appena prospettato sia alle viste, sicché è verosimile che prima o poi ad alcuni paesi non resterà altra alternativa che quella di cercare di recuperare la propria sovranità nazionale in campo monetario e fiscale.
Il principale ostacolo tecnico-istituzionale alla combinazione di politica monetaria e di politiche di bilancio sopra indicata è costituito dall’indipendenza politica della BCE – “la banca centrale più indipendente del mondo”. Tale indipendenza andrebbe gettata alle ortiche per potersi oggi avere in Europa un’unica politica di moneta a buon mercato, ossia tassi di interesse uniformemente bassi per tutti i paesi dell’eurozona. Ma va tenuto conto che nazione-guida dell’Unione è la Germania, la nazione europea economicamente più forte, eppure del tutto inadeguata, storicamente e culturalmente, a svolgere un tale ruolo. La Germania monta fiera la guardia all’indipendenza politica della BCE e non è disposta a sostenere soluzioni che permettano ai partner con disavanzi correnti di bilancia dei pagamenti nei suoi confronti di finanziarli a tassi d’interesse persistentemente bassi - nonostante proprio questo sia ciò che sarebbe richiesto dalla strada che la Germania ha da lungo tempo scelto per se stessa e che intende continuare a seguire: crescere attraverso le esportazioni, contenendo al contempo la sua domanda interna. Si tratta ovviamente di una strada non percorribile dall’insieme dei paesi dell’Unione, per quanto disposto ciascuno di essi possa essere a sforzarsi di seguire la nazione-guida sulla strada della crescente flessibilizzazione del proprio mercato del lavoro (tra i principali paesi dell’Europa continentale, la Germania è quello che nel corso dell’ultimo trentennio ha sperimentato il maggior calo dell’incidenza della contrattazione collettiva nella determinazione dei salari, con il risultato che alla vigilia dello scoppio della crisi l’incidenza dei bassi salari sull’occupazione complessiva vi aveva quasi raggiunto il livello statunitense e superato quello del Regno Unito).
Tuttavia, il ruolo egemone della Germania non appare sufficiente a spiegare come mai, contrariamente a quanto era pur ragionevole aspettarsi, di fronte alla crisi non sia si sia verificata in Europa alcuna revisione dottrinale né alcuna svolta negli orientamenti della politica economica. Dopo tutto, l’egemonia tedesca in Europa non può considerarsi tale da consentirle di tenere saldamente in pugno e decidere del benessere e della coesione sociale all’interno delle altre nazioni europee. Come il caso degli Stati Uniti rivela in maniera nitida, una vera e persistente egemonia deve basarsi, oltre che sulle armi (di cui la Germania non dispone ancora nella misura adeguata al ruolo che essa sta giocando), sull’espansione continua del mercato interno del paese che la esercita - un’espansione del suo mercato interno che sia sufficientemente sostenuta nel tempo da riuscire a trainare e/o consentire la crescita anche degli altri. Dunque, altro che esportazioni nette! Da questo punto di vista si può dire che il caso della Germania nazione-guida sia quasi ridicolo: è un po’ come se l’Italia che abbiamo conosciuto nel passato, quella della crescita trainata dalle esportazioni nette di beni e servizi e dalle svalutazioni competitive, avesse aspirato a divenire potenza egemone in Europa.

5. Ma se nel ruolo di nazione-guida svolto dalla Germania non c’è niente d’irresistibile ed inevitabile, occorre chiedersi perché le altre maggiori nazioni europee continuino di fatto a permetterle di giocare un tale ruolo – occorre cioè cercare di trovare altre spiegazioni alla pervicacia delle politiche economiche dell’austerità, di fronte all’approfondirsi della recessione in Europa.
La spiegazione principale che viene alla mente è la rilevanza della posta in gioco nella scelta della politica economica da seguire. La posta in gioco è il cambiamento delle condizioni di potere e distributive verificatosi nel corso dell’ultimo trentennio a favore del capitale e delle imprese. Un tale cambiamento ben difficilmente avrebbe potuto essere realizzato in Europa senza il ricorso sistematico a politiche deflazionistiche, condotte al riparo della situazione di “irresponsabilità politica” venutasi a creare per i governi e i parlamenti dei singoli paesi a seguito della loro rinuncia ad aspetti fondamentali della sovranità nazionale. Come si era visto in modo chiaro in Europa tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, crescita sostenuta e livelli di occupazione elevati finiscono per generare tensioni distributive attraverso l’aumento della forza contrattuale del lavoro dipendente; mentre politiche dei redditi capaci di tenere sotto controllo tali tensioni comportano la presenza di uno Stato sociale pervasivo e costoso, sostenuto e alla lunga solo reso possibile da forme di prelievo fiscale improntate a criteri di forte progressività. Ma grazie ai cambiamenti istituzionali che hanno accompagnato l’unificazione monetaria, la rinuncia da parte dei governi europei al mantenimento di alti livelli di occupazione e alle politiche redistributive è apparsa come imposta da vincoli tecnici oggettivi – come il risultato di una perdita di sovranità nazionale derivante da circostanze ineluttabili. La presenza diffusa di un’illusione d’ineluttabilità di questa situazione di ‘de-responsabilizzazione’ è certamente il fattore che ha consentito ai diversi governi europei di tenere in sempre minor conto le ripercussioni sociali e politiche di percorsi marcatamente deflazionistici e di classe.
Al di là della cortina fumogena degli argomenti tecnici sviluppati dagli economisti e della retorica europeista, è difficile non pensare che al fondo tutti sanno benissimo, alla luce dell’esperienza storica, che pieno impiego e tutela effettiva dei principali diritti sociali comportano un cospicuo intervento dello Stato nella produzione e distribuzione del reddito. Tutti sanno altrettanto bene che l’edificazione dello Stato sociale europeo nel corso del primo trentennio successivo al secondo conflitto mondiale sarebbe stata impossibile senza spese pubbliche ingenti, finanziate tramite il ricorso a forme di tassazione fortemente progressiva, e, in certe fasi, tramite l’aumento del debito pubblico; che quell’edificazione sarebbe stata inoltre impossibile senza il controllo dei movimenti internazionali dei capitali e dei tassi di interesse interni, senza la subordinazione della politica monetaria alla politica economica generale dei governi e senza politiche industriali e commerciali capaci di allentare persistentemente il vincolo di bilancia dei pagamenti alla crescita dell’occupazione. Insomma, tutti al fondo sanno che riformismo e socialdemocrazia sono inconcepibili se viene meno la sovranità dello Stato-nazione in campo economico, ed essa non è sostituita da nuove forme di potere politico sovranazionale capaci di regolare i processi produttivi e distributivi in funzione della crescita di un insieme di economie e del contenimento delle disuguaglianze al loro interno. Ora, è proprio questa duplice assenza - dello Stato nazionale e di un potere politico sovranazionale - ciò che è stato realizzato con la costituzione dell’Unione europea e dell’Eurosistema; ed è questa duplice assenza ciò che oggi si cerca pervicacemente di preservare di fronte alla recessione.

Si tratta indubbiamente di un percorso spregiudicato, che però contiene al suo interno un elemento di ottusità, in parte alimentato dal fatto di continuare a non incontrare, perlomeno al di fuori della Francia e della Grecia, alcuna vera opposizione politica. Questo elemento di ottusità sostanzialmente consiste nel supporre che la stabilità sociale non stia correndo alcun serio pericolo, ovvero nell’aver perso di vista che in Europa essa è stata a lungo proprio il frutto di quelle politiche redistributive di cui ci si sta alacremente liberando.