La sinistra fuori dalla morsa tra «neo» e social-liberisti



 Riccardo Bellofiore

A. Burgio ha rinvenuto le radici della crisi di governo in una dualità delle culture politiche nell'Unione: i «moderati», con una impostazione neoliberista, versione aggiornata del buon vecchio laisser faire: i «radicali», attenti alle ingiustizie e all'intervento dello Stato. Più che un programma vago, si richiedeva un «compromesso tassativo». Uno scambio, tra quanta «privatizzazione» e quanto «intervento pubblico». Una impostazione del genere affida alla sinistra una missione impossibile. Aver pensato ad un accordo di governo tra «neoliberisti» e «sinistra» mi pare sfuggire a qualsiasi intelligibilità politica. Anche se chiarirebbe non poco sia le sabbie mobili in cui si è finiti, sia perché il confronto nella coalizione è stato condotto alzando quotidianamente alte grida prive di qualsiasi efficacia. Il limite fondamentale è che una tesi del genere dà una rappresentazione falsa di come stanno le cose, e immiserisce la cultura del centro-sinistra. Per capire dove siamo approdati è meglio partire da una, sia pur rozza, dicotomia tra «neo-liberismo» e «social-liberismo».
Il neoliberismo è irriducibile al «lasciar fare». Ha l'ossessione dei «fallimenti dello Stato». Vuole deregolamentare, ridurre il peso dello Stato.
Ma il «libero mercato» va bene solo per il mercato del lavoro, la spesa statale la si falcidia solo nel suo versante sociale.
Al di là di questo perimetro, che include la massima precarizzazione possibile, il neoliberismo tutto è meno che autenticamente liberista. Non attacca le posizioni di monopolio (basta citare Bush e Berlusconi per capirlo). Si disinteressa dei disavanzi statali e del debito pubblico: vuole la riduzione delle imposte, e invade politicamente l'economia (lo chiama «neocolbertismo»).
Il social-liberismo vuole contrastare i fallimenti dello Stato (ammettiamolo, in certi casi innegabili), ma anche i «fallimenti del mercato». Loro sì che sono davvero liberisti: ma sul mercato dei beni o dei servizi, non sul mercato del lavoro. Vogliono liberalizzare per riregolamentare: la concorrenza punirebbe le derive del capitalismo legate a posizioni di monopolio; ridurrebbe i costi per le imprese, e i prezzi per i consumatori. Loro sì che insistono per rispettare il Patto di Stabilità. Non perché credano alle virtù taumaturgiche della finanza sana, piuttosto spingono per una maggiore efficienza del settore pubblico. Questa «lotta alle rendite», assieme a una politica industriale (e magari creditizia) per incentivi e disincentivi, farebbe ripartire lo sviluppo. A questo dovrebbe contribuire una maggiore «flessibilità» del lavoro, tollerabile perché affiancata ad un welfare universalista e ad ammortizzatori sociali. I salari si faranno aumentare, in modo diseguale, con la contrattazione articolata e territoriale. I social-liberisti vorrebbero dunque redistribuire. Misure come la stessa riforma delle pensioni, e il dirottamento del Tfr nei fondi pensione puntano a far partecipare i lavoratori ai guadagni di capitale, dar voce ai risparmiatori nella gestione delle imprese, rendere meno «familiare» il nostro capitalismo.
Si può capire perché possa essere apparso opportuno, se non necessario, formare una coalizione tra social-liberisti e sinistra. Si capisce anche perché la base sociale del social-liberismo non sia riducibile ad una grande impresa manifatturiera ormai quasi scomparsa da noi, ma stia in parte nelle reti di piccole imprese, nel «quarto capitalismo» delle medie imprese multinazionali, nella finanza, nel capitalismo dei servizi. Perché abbia un radicamento nel sindacato. Non vanno però trascurate due cose.
«La prima è che esiste da tempo di un nuovo ciclo economico-politico. La destra va al governo. Pratica in pieno la politica «neoliberista», trovandosi contro «moderati» e «radicali», uniti. Spende e spande, creando voragini nella finanza pubblica: e nel caso italiano, accelera il declino. Ad un certo punto, viene sostituito dal centro-sinistra più la sinistra che va al governo. Peccato che, si dice, non vi sia più niente da redistribuire, che si debba risanare il debito pubblico. Se si vuole praticare un po' di redistribuzione, e favorire lo sviluppo, la crescita delle imposte deve essere maggiore. Si determina un progressivo sfaldamento. Ogni dissenso interno, ogni conflitto sindacale viene visto dai «moderati»come un sabotaggio alle politiche di sviluppo, mentre la sinistra della sinistra grida al tradimento contro la sinistra al governo. Qualcuno, che si era illuso che il «movimento» avrebbe spostato la coalizione a sinistra, ha un brusco risveglio. Di sicuro, la sinistra al governo si limita ad essere passivamente reattiva. La frantumazione non aiuta a modificare lo stato delle cose. Si estende il disagio sociale: e un conflitto sempre più forte, ma a destra. Il centro-sinistra collassa. Il ciclo riparte, in una spirale al ribasso, che può comprendere, come in Germania, qualche grande coalizione.
La seconda è che, per non finire in questa trappola, si sarebbe dovuto, come si deve ora, presentarsi con qualcosa di più di parole d'ordine disparate, con qualcosa di coerente. Con un asse, e un asse solo: una sinistra del lavoro, dove le questioni della natura e del genere attraversino trasversalmente la ridefinizione del modello economico e sociale di sviluppo. Tanto più che il «nuovo» capitalismo - su cui scommettono, in modi diversi, neoliberisti e social-liberisti - è instabile e insostenibile, oltre che socialmente distruttivo. E sul proprio programma si possono, sì, chiedere rinunzie al proprio popolo, in certi casi si deve uscire dalla coalizione: non si può invece mobilitare due volte grandi masse solo per restare a galla nel piccolo cabotaggio. Subalterni al social-liberismo.
Ha ragione Tronti: bisogna «alzare il tiro». Occorre capire se la «cosa rossa» (orrendo termine, ma sempre meglio di quello che poi si è scelto) vuole configurarsi come vero partito riformista nella tradizione social-democratica (sarebbe un bel passo avanti, anche se non sarebbe il mio partito); o se intende mantenere un filo forte con una sinistra di classe, di ispirazione marxiana e comunista. E' chiaro comunque che condizione necessaria, anche se non sufficiente, per ripartire è una esplicita dichiarazione di fallimento. Una assunzione di responsabilità, una inequivoca cesura con la linea confusa e disastrosa che ci ha condotti a questo stallo. Ora, non domani, bisogna avere il coraggio di accettare una sfida programmatica all'altezza di quella social-liberista. Con i piedi finalmente ben saldi dentro un rinnovato protagonismo di classe.